Un onco-pneumologo, esperto in neuroscienze e invecchiamento in salute, intervista un immunologo-ricercatore:
Enzo Soresi intervista Alberto Beretta: “sarà assolutamente consigliabile vaccinarsi contro l’influenza” e molto altro su Covid-19, immunità e salute
Perché hai affermato in un tuo intervento su facebook di qualche tempo fa che non è opportuno stimolare il sistema immunitario adattativo in quanto potrebbe peggiorare la risposta al COVID-19? In un momento in cui tutti si impegnano a potenziarlo con vari tipi di integratori mi sembra una affermazione controtendenza.
Oggi sappiamo che La COVID-19 è una malattia infiammatoria acuta causata dal virus SARS-CoV-2. Sappiamo anche che il virus, quando infetta le cellule, riesce in brevissimo tempo a spegnere completamente la risposta dell’immunità innata (in modo particolare gli interferoni di tipo I e III) e attivare tutte le citochine e chemochine infiammatorie in un colpo solo. Il risultato è che la cellula chiama su di sé le cellule dell’immunità chiamata Th1 (prima i linfociti, poi i monociti-macrofagi e via dicendo). Il risultato è una reazione infiammatoria che può arrivare fino alla cosiddetta “tempesta citochinica”, spesso mortale per il paziente. E che, nei pazienti che sopravvivono, lascia delle sequele molto gravi. Il lavoro recente del gruppo di Andrea Cossarizza pubblicato su Nature Communications dimostra che tutte le sottopopolazioni linfocitarie T, anche quelle che in una risposta immunitaria normale si bilanciano fra di loro in modo molto preciso, sono contemporaneamente attivate. Il risultato è un caos immunologico da iper-attivazione. Una iper-attivazione che è tanto più potente quanto più il sistema immune del soggetto è stato precedentemente stimolato e si trova in uno stato di attivazione-esaurimento cronico. Non a caso gli anziani sono più suscettibili alla COVID-19. E’ ormai accertato che il sistema immune dell’anziano soffre di una condizione chiamata inflamm-aging (letteralmente infiammazione-invecchiamento) caratterizzata dalla coesistenza di due fenomeni apparentemente contradditori: da una parte il sistema immune è iper-attivato e dall’altra è incapace a reagire in modo appropriato. Una condizione favorita anche da stili di vita scorretti come la sedentarietà e le diete ipercaloriche, peraltro osservata anche nei pazienti COVID giovani. In questo contesto, l’impiego di integratori nutrizionali con attività immunostimolanti (estratti di papaya, echinacea e altri) potrebbe rivelarsi controproducente. Molti di questi immunostimolanti sono di fatto degli attivatori policlonali della risposta T. Proprio quello che non vuoi avere quando incontri il SARS-CoV-2. D’altra parte che senso ha stimolare il sistema immunitario in una malattia per la quale, l’unico farmaco con confermata efficacia è un cortisonico?
Questo non vuol dire che dal mondo delle sostanze naturali non possa emergere una risposta al problema. Nel caso specifico, a mio parere, l’impiego della curcuma come anti-infiammatorio potrebbe rivelarsi utile. Ma mancano sperimentazioni adeguate. E bisogna fare attenzione al prodotto che contiene la curcuma. Solo pochi integratori hanno una curcuma che funziona correttamente perché è una molecola che ha una scarsa biodisponibilità. Un’altra molecola da tenere sotto osservazione è il resveratrolo che, oltre ad agire sui meccanismi infiammatori attivando le sirtuine, ha anche una attività anti-virale diretta (per lo meno in esperimenti in vitro). Anche per il resveratrolo il problema è la scarsa biodisponibilità. Ma esiste un’alternativa, la polidatina, che altro non è che resveratrolo dotato di un gruppo glucidico che gli permette di entrare nelle cellule. Stiamo però sempre parlando di ipotesi scientifiche che necessitano di validazioni cliniche.
Sulla mia pagina facebook Immunologia Oggi ho affrontato questo argomento in varie occasioni.
Puoi spiegare ai nostri lettori in modo semplice la differenza fra immunità innata ed adattativa? Se il primo livello di difesa è l’immunità innata come possiamo potenziarla?
L’immunità “classica” come tutti la conosciamo, che noi immunologi chiamiamo “immunità acquisita o adattativa” ci permette con una semplice vaccinazione di essere immuni a un virus o un battere per molti anni. Oppure, di diventare immuni ad un virus dopo averlo incontrato e sviluppato o no la malattia. Può essere molto efficace (anche se nel caso del coronavirus ancora non lo sappiamo con certezza) ma richiede un certo tempo per entrare in funzione. Almeno 8-10 giorni. Questo perché le cellule che producono gli anticorpi, i linfociti B, hanno bisogno di tempo per proliferare e diventare abbastanza numerose da produrre una quantità sufficiente di anticorpi. Questo tipo di immunità è comparsa in un secondo tempo nel corso dell’evoluzione. E’stata preceduta da una altra forma di immunità, chiamata “innata” che rappresenta il primo livello di difesa contro i virus e altri patogeni. Si tratta di una linea di difesa pronta all’uso che non ha bisogno di tempo per organizzarsi come l’immunità acquisita. Le cellule che ne fanno parte sono di diversi tipi e producono vari tipi di molecole capaci di bloccare il virus. Non entro nei dettagli. Gli studi in corso per capire come funziona e come potenziarla sono numerosi. Ma ancora non sappiamo come misurarla. Sappiamo che ha un ruolo fondamentale contro il coronavirus ma non sappiamo esattamente con quale meccanismo e non possiamo dire ad una persona se è o non è naturalmente protetta dal virus. Per questo motivo non può essere presa in conto per valutare lo stato di “immunità di gregge” di una popolazione che può essere solo conferito da una copertura quasi totale della popolazione da parte dell’immunità conferita dagli anticorpi capaci di neutralizzare il virus.
L’ipotesi che emerge dagli studi in corso sui soggetti contagiati dal coronavirus è che il risultato iniziale dell’infezione dipende in larga misura da un equilibrio fra il numero di copie virali che infetta la persona (la “carica virale”) e la forza della sua immunità innata. Poco virus e un buon livello di immunità innata uguale protezione (infezione asintomatica o semplicemente transitoria con controllo immediato del virus). Tanto virus e una debole immunità innata invece risulta in un mancato controllo del virus e, a questo punto, la palla passa all’immunità adattativa che però ha bisogno di 8-10 giorni per entrare in funzione. Nel frattempo il virus scende nelle vie respiratorie fino agli alveoli polmonari e causa quello che sappiamo. L’immunità innata è molto efficiente nei bambini ma molto carente negli anziani. La speranza è che un vaccino efficace possa accelerare l’entrata in funzione dell’immunità acquisita e sopperire alla mancata efficacia dell’immunità innata.
Da notare che negli ultimi anni si è fatta avanti una ipotesi molto interessante: quella di stimolare l’immunità innata e “allenarla” a essere più efficiente. La chiamiamo “trained immunity”, immunità allenata. E’ una ipotesi nata dall’osservazione che soggetti vaccinati con un determinato vaccino, come per esempio il BCG, risultano protetti contro malattie virali che con il vaccino non hanno nulla a che vedere. Nel caso specifico del coronavirus, un illustre collega americano, Robert Gallo, ha per esempio proposto di utilizzare, nell’attesa di avere un vaccino specifico, il vaccino della polio. Proposta che difficilmente verrà accolta. Ma sono in corso sperimentazioni per verificare se l’impiego del vaccino trivalente MPR (morbillo, parotite, rosolia) può “allenare” l’immunità innata. Nel caso specifico dell’MPR abbiamo una evidenza indiretta di efficacia: quella dell’epidemia scoppiata a bordo della portaerei americana Roosevelt, dove il 90% dei soggetti positivi al tampone erano asintomatici. Militari che avevano fatto il vaccino MPR. Gli autori della ricerca sull’MPR hanno anche avanzato l’ipotesi che il motivo per cui i bambini sono così resistenti al coronavirus è che sono tutti vaccinati con l’MPR. Siamo ovviamente nel campo delle ipotesi ma non così lontane da una possibile applicazione clinica.
Contro il bacillo di Koch è il macrofago che ingloba il batterio e lo costringe all’interno della necrosi caseosa in cui può sopravvivere mantenendo una immunità attiva . È possibile qualcosa di analogo contro il COVID-19 in prospettiva?
Non credo si possano paragonare due patogeni così diversi. Purtroppo nel caso del SARS-CoV-2 il ruolo dei macrofagi sembra essere patogenetico e non protettivo. Questo perché il virus, quanto entra nella cellula non solo spegne i geni dell’immunità innata (interferoni) ma addirittura attiva tutti i geni delle citochine e chemochine infiammatorie con il risultato di scatenare la reazione infiammatoria. I macrofagi normalmente non sono infettabili dal SARS-CoV-2 ma sulla base dei risultati degli studi sierologici disponibili da pazienti COVID, SARS e MERS è emersa la possibilità che gli anticorpi prodotti nelle fasi molto precoci dell’infezione possano indurre la fagocitosi del virus da parte dei macrofagi alimentando la reazione infiammatoria.
Esiste un marker indiretto per capire l’efficienza della immunità innata ?
Purtroppo non ancora. E’ la parte più importante che manca al nostro bagaglio diagnostico. Occorre tenere presente che l’immunità innata gioca un ruolo molto importante a livello delle mucose del naso e dell’orofaringe. Trovare un marker sistemico (per esempio nel sangue periferico) che ci indichi lo stato dell’immunità mucosale è una sfida seria.
Se l’infiammazione dell’organismo è alla base della nostra salute e’ giusto sviluppare uno stile di vita che la riduca e consenta di affrontare il COVID-19 con minor rischio?
Se, come dice Ilaria Capua, dobbiamo abituarci a convivere con questo virus (opinione che condivido) agire sui fattori che aumentano la morbidità del virus è l’unica cosa che possiamo fare per ridurre gli effetti di un eventuale contagio. L’infiammazione cronica asintomatica tipica del soggetto sedentario e sovrappeso è di certo un fattore di rischio. Il vantaggio che abbiamo su questo fronte è che sappiamo molto bene come misurarla, come prevenirla e come curarla. Per misurarla si utilizzano alcuni markers ematici come la PCR ad elevata sensibilità e la interleuchina IL-6, che sono molto sensibili a variazioni minime dello stato infiammatorio. Per prevenirla basta agire in modo serio e costante sugli stili di vita. Una dieta appropriata che riduca l’apporto calorico e sia sufficientemente ricca di “smart food” capaci di ridurre l’infiammazione è un tassello fondamentale. Personalmente consiglio a tutti di adottare alcune regole di digiuno intermittente, che non vuole necessariamente dire restare una settimana ogni tanto con un apporto calorico giornaliero sotto le 1.000 calorie. Si ottengono ottimi effetti con altri protocolli più facilmente praticabili. Senza parlare del ruolo sempre più importante del microbiota intestinale che può alimentare l’infiammazione sistemica quando ospita determinate specie batteriche. Anche qui la diagnostica ci viene in aiuto perché i sistemi di misurazione delle specie batteriche intestinali sono ormai disponibili a tutti. E non dimentichiamo l’esercizio fisico regolare. Tutti questi fattori contribuiscono sostanzialmente a ridurre l’infiammazione sistemica. Non solo questo. E’ molto importante allenare i muscoli della respirazione e la capacità polmonare con esercizi specifici. Non dimentichiamo che la COVID-12 colpisce duramente i polmoni e, nei convalescenti può lasciare deficit permanenti molto gravi. Un buon allenamento respiratorio può preparare il nostro organismo ad un eventuale infezione con il virus e aiutarci a passarla senza troppe conseguenze. Trovate molti dettagli e informazioni su questi aspetti nel mio sito SoLongevity.
Perché i soggetti obesi sono più a rischio ammalandosi di COVID-19 di pagare più danni ?
Mi ricollego alla domanda precedente. L’obesità, in modo particolare l’obesità viscerale, è un generatore di infiammazione cronica che a sua volta danneggia i tessuti e crea quello stato di inflamm-aging di cui ho parlato in precedenza. Questo è uno degli aspetti più studiati dagli immunologi negli ultimi anni, al punto che si parla oggi di una nuova area di ricerca: l’immuno-metabolismo. Dati acquisiti recentemente hanno dimostrato che nella tempesta citochinica che caratterizza la terza fase della malattia (quella più grave) due citochine giocano un ruolo importante: la IL-6 e la IL17. Entrambe le citochine sono coinvolte negli stati infiammatori tipici del soggetto obeso. Per tutte e due abbiamo farmaci efficaci in fase di sperimentazione. Ma non dobbiamo contare troppo sui farmaci. Meglio prevenire. Il modo migliore di prevenire è tenere sotto controllo il peso con diete e attività fisica. In Italia abbiamo moltissimi professionisti, medici e nutrizionisti, molto competenti in materia. Affidiamoci ai loro consigli.
Cosa pensi della corsa al vaccino scatenatasi nel mondo occidentale ?
Se devo essere sincero la stessa parola “corsa” mi spaventa. Di questo virus e di come il sistema immunitario lo tiene sotto controllo sappiamo ancora troppo poco per “correre” a sviluppare un vaccino. Un esempio su tutti. E’ di pochi giorni fa la notizia dei risultati della prima ricerca che ha posto la domanda: quanto tempo durano gli anticorpi nei soggetti dopo l’infezione? Il risultato è stato abbastanza sconcertante. Si parla di due, forse tre mesi. Fino a due settimane fa si parlava di uno o due anni facendo analogie con quanto osservato nei pazienti SARS e MERS. Ottimismo smentito dai fatti. Ora mi chiedo: quanto riuscirà un vaccino a indurre una risposta anticorpale protettiva che duri almeno un anno se il virus stesso non ci riesce? Una domanda che richiederà esperimenti di lunga durata e alla quale non si può rispondere “di corsa”. I vaccini attualmente in fase di sperimentazione utilizzano tre tecnologie differenti: vettori virali (per esempio il vaccino di Oxford), RNA (il vaccino della MODERNA), e proteine ricombinanti. Non prendo in considerazione le differenze tecnologiche. Tutti sono basati sull’induzione di anticorpi contro la proteina “spike” (quella che vedete come un funghetto sui pittogrammi del virus) che serve al virus per entrare nelle cellule. Non sappiamo ancora con che frequenza questa proteina muterà nei prossimi anni. Due mutazioni sono già state osservate, e non sono poche se si tiene in considerazione che l’epidemia è solo all’inizio. Questo non vuole dire che non avremo un vaccino. Sono già stati sperimentati con successo nei modelli animali vaccini che sfruttano sequenze conservate del virus per indurre una immunità a livello delle mucose. Penso che dovrebbero essere presi in considerazione. Ma qui entra in gioco il fattore tempo. I vaccini a base di spike sono già stati sviluppati per i due coronavirus precedenti e sono più facili da fare. Ma la fretta può indurci a prendere la strada sbagliata.
Perché è opportuno vaccinarsi contro l’influenza nel prossimo autunno?
Per una serie di motivi. Tutti serissimi. L’influenza si manifesta con sintomi molto simili, almeno nelle fasi iniziali, a quelli della COVID-19. Un’eventuale co-infezione con i due virus o anche una prima influenza seguita dall’infezione con il coronavirus dopo qualche settimana possono creare serie difficoltà nelle decisioni su come diagnosticarle o come curarle (facilmente immaginabili). Un esempio su tutti: mal di gola e febbre, chiamo il medico, probabile influenza, ma non si può escludere COVID, forse per sospetti contatti o comportamenti a rischio. Cosa fa il medico? I nostri laboratori di virologia saranno abbastanza attrezzati per fare tamponi a tutti i sintomatici quando i sintomi non ci indicheranno con chiarezza se abbiamo a che fare con una banale influenza o con una COVID-19? Se non siamo risusciti a diagnosticare l’infezione da coronavirus in un periodo, quello di marzo-aprile 2020, in cui l’epidemia di influenza era già quasi terminata, come possiamo immaginare di riuscirci nell’eventualità che le due epidemie esplodano contemporaneamente?. Corriamo il rischio di lasciare progredire l’infezione da coronavirus quando sappiamo tutti che un intervento terapeutico tempestivo può salvarci la vita.
Non solo, sappiamo che il virus dell’influenza induce nelle cellule del polmone un aumento del recettore per il coronavirus. E’ dunque molto probabile che l’influenza aggravi l’andamento della COVID.19. Credo che a breve avremo dati epidemiologici chiari su questo soggetto.
Terzo ma non meno importante motivo. Mi ricollego a quanto detto prima. Il ruolo degli stati infiammatori cronici nella patogenesi della COVID-19. L’influenza è una delle cause più comuni di infiammazione sistemica in stagione invernale. Una influenza presa a novembre può scatenare un processo flogistico sistemico, che, soprattutto nel soggetto anziano, si può protrarre per settimane e predisporlo ad una risposta infiammatoria esagerata al contatto con il SARS-CoV-2.
Per tutti questi motivi sarà assolutamente consigliabile vaccinarsi contro l’influenza.
Alberto Beretta è un medico ricercatore immunologo. Ha svolto le sue prime ricerche all’Istituto Karolinska di Stoccolma, dove ha conseguito il suo dottorato di ricerca, e all’Istituto Pasteur di Parigi dove ha collaborato con il gruppo di ricerca che ha scoperto il virus HIV. E’ stato poi responsabile di una unità di ricerca su HIV all’Ospedale San Raffaele di Milano. Da due anni ha fondato, con un gruppo di colleghi medici e ricercatori, una iniziativa per promuovere l’invecchiamento in salute facendo leva sulle nuove ricerche sulla longevità e sui meccanismi che portano il sistema immune del soggetto anziano a non essere più competente a rispondere alle aggressioni virali.