da Immunologia oggi dr. Alberto Berretta
VACCINO: QUALE ORO?
Come ricercatori e, più particolarmente, come immunologi e virologi, siamo rimasti colpiti molto negativamente dal servizio speciale dedicato al vaccino contro il nuovo coronavirus apparso su Repubblica in data 4 Giugno 2020 dal titolo “La corsa all’oro”. Perché quella del vaccino non è una guerra fra aziende rivali per la conquista dell’eldorado o di questo e quel mercato come traspare dall’articolo in questione. È innanzitutto una guerra della scienza per bloccare un virus di cui purtroppo sappiamo ancora troppo poco. Una guerra che rischiamo di perdere se confondiamo la realtà scientifica con la politica e/o gli affari e che possiamo vincere solo partendo da basi scientifiche solide. Senza perdere tempo a disegnare scenari da guerre stellari che sono non solo inutili ma anche dannosi per l’immagine della ricerca scientifica che generano nel pubblico.
Un vaccino destinato a miliardi di persone deve essere assolutamente sicuro e possibilmente efficace. Per verificare la sicurezza e l’efficacia di molti vaccini sono occorsi dai 5 ai 15 anni di ricerca. Per il vaccino contro il coronavirus si parla di un anno. La domanda legittima è: quanto è realistico pensare di potere bruciare le tappe e arrivare in tempi così brevi ad averlo nelle nostre farmacie? Come possiamo anche solo immaginare di vaccinare qualche miliardo di persone dopo avere testato la sicurezza di un vaccino su mille, o duemila/tremila persone?
Ma prima ancora di prendere in considerazione i problemi legati alla potenza statistica degli esperimenti in corso o futuri, bisogna preoccuparsi di quello che ancora non sappiamo sulla risposta protettiva a questo virus.
Tutti i vaccini attualmente in fase di sviluppo hanno un unico obbiettivo: stimolare la produzione di anticorpi capaci di bloccare il virus prima che entri nelle cellule e provochi i disastri che tutti conosciamo. I virologi li chiamano “anticorpi neutralizzanti”. Come funzionano? Teoricamente in modo semplice: si “incollano” a una proteina presente sulla membrana del virus, chiamata “Spike”, e le impediscono di attaccarsi al recettore che la cellula ha sulla sua membrana. La “spike” del coronavirus è quella struttura a forma di fungo che vedete sui pittogrammi del virus e che ha un ruolo molto importante nel ciclo replicativo del virus: gli permette di agganciarsi alla cellula, entrare e replicarsi. Il problema è che le spike sono a loro volta strutture molto complesse. E’ come se fossero fatti di un centinaio di piccole spike tutte diverse. Ma una solo di queste mini-spike riesce ad agganciarsi al recettore. Come può il sistema immunitario capire quale anticorpo fare se non sa contro quale mini-spike indirizzarlo? Se sbaglia, produce un sacco di anticorpi che non servono a niente. Peggio, questi anticorpi possono trasformarsi in un vero e proprio “fuoco amico” e ritorcersi contro il nostro stesso organismo. Anche se non lo sappiamo ancora con certezza, il decorso della malattia COVID-19 potrebbe essere influenzato da questi errori del sistema immunitario che si ritorcono contro le nostre stesse cellule. Le sindromi infiammatorie sistemiche osservate nei pazienti che hanno un decorso clinico peggiore potrebbero essere indotte da questo tipo di problema. I dati in letteratura sono numerosi.
Un vaccino, per essere sicuro ed efficace, deve dunque saper allenare il sistema a produrre gli anticorpi giusti e non quelli sbagliati. E qui nasce il primo grande problema. Gli “sbagli” del sistema immunitario, in altre parole il “fuoco amico” sono molto difficili da evitare senza prima conoscere con precisione come reagisce il sistema immunitario delle persone che il virus lo hanno incontrato e di cui hanno sofferto. In altre parole, senza una analisi su grandi numeri e in contesti epidemiologici diversi degli anticorpi prodotti nelle fasi iniziali dell’infezione, durante la malattia e nei mesi che seguono, non possiamo sapere se e per quanto tempo il sistema è capace di produrre gli anticorpi giusti e non quelli sbagliati. Non solo, abbiamo già dati a disposizione che ci devono indurre ad una certa prudenza. Non possiamo per esempio escludere che le infezioni concomitanti con altri coronavirus non patogeni, come quelli del comune raffreddore, stimolino risposte paradossali. Serve tempo per generare dati che ci permettano di escludere questa possibilità.
Puntare tutto sugli anticorpi neutralizzanti potrebbe non essere la strategia vincente. Il rischio che un vaccino di questo tipo induca “fuoco amico” non può essere escluso a priori o con sperimentazioni affrettate su numeri limitati di soggetti. Abbiamo già vissuto una esperienza simile con il vaccino per la Dengue. Da non ripetersi.
Non solo. Nonostante il nuovo coronavirus sia relativamente poco soggetto a mutazioni (al contrario del virus HIV), alcune mutazioni nella spike sono già state rilevate. Una in particolare, rilevata dal gruppo di David Montefiori, ha il potenziale di aumentare il “fuoco amico” a cui abbiamo accennato prima. Considerando che siamo solo all’inizio dell’epidemia, non possiamo escludere che nuove mutazioni appaiano in futuro e che possano rendere vani gli sforzi di sviluppare un vaccino di questo tipo.
D’altra parte la letteratura scientifica ci offre spunti interessanti su strade alternative. Per esempio su vaccini che inducono un altro tipo di risposta immunitaria, quella sostenuta dalle cellule T CD4, in modo particolare a livello delle mucose, la porta di entrata del virus. Il vantaggio di questo tipo di vaccini è che sono diretti contro zone del virus conservate (che non sono soggette a mutazioni) e condivise fra diversi tipi di coronavirus. Un vaccino capace di indurre questo tipo di risposte offrirebbe notevoli vantaggi. Uno studio molto interessante su questo argomento è stato pubblicato dal gruppo di Ralf Baric nel 2018 utilizzando il virus della SARS. Lo trovate allegato a questo post. Notiamo però che nel listing delle strategie vaccinali attualmente in fase di test questi vaccini non appaiono. Probabilmente perché i dati a loro favore sono considerati ancora incompleti e perché le tecnologie necessarie non sono ancora state sviluppate su scala industriale.
Questo però non ci deve indurre a lanciarci a testa bassa sulla strada di vaccini che basano la loro sicurezza ed efficacia su conoscenze che ancora non abbiamo. Abbiamo bisogno di tempo per chiarire tutti questi aspetti, prima di tutto osservando l’andamento nel tempo delle risposte anticorpali dei pazienti, misurarne l’efficacia e la durata, escludere la presenza di “fuoco amico” e la possibilità che una seconda ondata epidemica non trovi addirittura vantaggio da questi sbagli del sistema immunitario.
Questo tipo di ricerche sono però difficili da perseguire in un clima caratterizzato da una fortissima pressione della politica e dell’opinione pubblica per fare in fretta. Senza tenere in considerazione l’impatto che interessi di parte di questa o quella azienda produttrice possono giocare in questo scenario.
L’informazione al pubblico dovrebbe tenere presente tutte queste incognite per evitare il rischio di soffiare sul fuoco ed alimentare nuove ondate di negazionismo, complottismo e oscurantismo a cui già stiamo assistendo.
Questo post è stato condiviso con i colleghi Donato Zipeto, Professore associato di Biologia Molecolare all’Università di Verona e Andrea Cossarizza, Professore Ordinario di Patologia Generale e Vice Presidente della Facoltà di Medicina Università di Modena e Reggio Emilia
Per chi desidera approfondire:
un articolo sulla rivista Immunity che analizza lo stato dell’arte dei vaccini attualmente allo studio:
l’articolo del gruppo di Ralf Baric che descrive una strategia alternativa per la vaccinazione